l suo podcast Indagini è il più ascoltato di sempre nel genere true crime ed è diventato anche uno spettacolo teatrale, Indagini Live, con cui da due anni gira tutta l'Italia. All'inizio del mese esce una nuova puntata e sui social i suoi fan si scatenano a indovinare di quale caso di cronaca nera, o di quale cold case, si tratti. Sui social, sì: perché Stefano Nazzi, giornalista di lungo corso, 63 anni, ha uno strepitoso pubblico perlopiù di giovanissimi, che lo seguono e lo acclamano in teatro come una rockstar: il suo successo è un fenomeno giornalistico senza precedenti. Conosco bene Nazzi: abbiamo lavorato insieme 15 anni, l'ho voluto vicedirettore. Se gli avessi chiesto di parlare in pubblico, si sarebbe rifiutato, troppo a disagio. Oggi uno dei suoi segreti è proprio la voce, senza accenti, la "s" e la "z" un po' taglienti, qualche "e" stretta: l'hanno definita sexy. Ce lo racconta lui, divertito, insieme ad altri dettagli della sua vita riservata.
Il tuo podcast Indagini e i tuoi spettacoli hanno conquistato i ragazzi, sei un loro punto di riferimento: qual è il segreto?
"È stata una grande sorpresa. È interessantissimo per me, mi interrogo spesso: forse una ragione è che sono arrivato a loro attraverso uno strumento che già utilizzano, il podcast. E anche perché racconto storie che non conoscono e che scoprono con me. Sono molto giovani, dopo gli spettacoli capita che qualcuno mi dica: Sai che i miei genitori la conoscevano, questa storia?. Per loro è un mondo nuovo. Omicidi che per noi sono eventi memorabili, come ad esempio il caso di Annamaria Franzoni, a loro sono ignoti: Annamaria chi?".
E poi c'è la tua voce. L'incipit del podcast ("Io mi chiamo Stefano Nazzi e faccio il giornalista da tanti anni") è diventato un cult e a teatro i ragazzi lo accolgono con un'ovazione.
"La prima volta che è successo un po' mi sono commosso e mi è venuto da ridere: pazzesco. Mio figlio mi ha detto: Ma guarda cosa hai combinato!. Quegli applausi danno un'energia straordinaria. È una soddisfazione inaspettata, ma anche frutto di un lungo lavoro. Anni nei giornali, tantissima scrittura e preparazione: forse mi illudo, ma penso di raccontare le storie in un certo modo, corretto, continente, senza mai dare giudizi. Ai ragazzi piace, devo a loro questo successo a 60 anni: li devo ringraziare".
E la voce?
"Non saprei, non ho fatto dizione, né studiato recitazione. Mia figlia di 23 anni, quando discutiamo mi dice di non fare la voce da Indagini, che poi è la mia normale. Mi rendo conto però che sia parte della popolarità: i giovani mi scrivono su Instagram e mi chiedono di registrare un audio per la fidanzata che compie gli anni, o per due amici che si sposano: li faccio, certo, come i selfie. E mi fermo anche a parlare con loro quando vengono alle presentazioni dei libri. Chiedono consigli sull'università, mi portano la tesi da leggere Dico: guardate che sono solo un giornalista!".
A proposito di figli: come hanno accolto il tuo successo?
"Jan, il maggiore, vive in Spagna ed è un videomaker: contribuisce a Indagini curando i video per i social, mi dà una mano. Giacomo, quello di mezzo, è psicologo a Milano ed Elisabetta sta facendo uno stage per Emergency. Loro mi prendono in giro, come è giusto che sia, in famiglia questa cosa non viene presa molto sul serio. Siamo rimasti noi. Però, certo, sono contenti".
È appena uscito per Mondadori il tuo nuovo libro, "Predatori". Dopo "Il volto del male" sui delitti italiani e "Canti di guerra", sangue e potere negli anni '70 a Milano, questo è sui più famosi serial killer americani. Cosa c'è nella loro mente?
"Un tratto comune che li caratterizza è la volontà di dominio sulle altre persone. Il movente profondo è sempre quello, il desiderio di possesso, decidere della vita o della morte degli altri. Voler essere superiore e dominante. Poi ognuno ha motivazioni diverse, che possono essere di tipo sessuale o meno, però alla base c'è sempre questo narcisismo assoluto che porta a pensare che nell'universo conti solo tu".
Quanto influisce nelle devianze dei serial killer il tipo di infanzia o di adolescenza che hanno vissuto?
"Sembra un luogo comune, ma se vai a vedere le loro storie troverai quasi sempre che da bambini facevano del male agli animali, ad esempio. Non tutti, ma molti hanno una figura paterna assente e madri invece fortissime, dominanti. E spesso hanno subito gravi umiliazioni da ragazzini: un noto serial killer, Edmund Kemper, veniva richiuso in cantina perché non desse fastidio alle sorelle. Nel loro passato si trova spesso anche una consuetudine con pornografia violenta e becera. Ted Bundy lo disse apertamente: ho iniziato ad avere fantasie malate avvicinandomi alla pornografia. Erano gli anni Settanta, ha ucciso almeno 36 donne".
Come nasce il tuo podcast: scegli tu la storia da raccontare?
"Sì, scelgo la storia e inizio a studiare le carte processuali, a leggere gli articoli del tempo, i libri usciti su quell'omicidio, quando ci sono guardo anche vecchie interviste su YouTube. Raccolgo moltissimo materiale e poi inizia il lavoro più giornalistico, di selezione. Bisogna scrivere una scaletta, è fondamentale. Carlo Lucarelli mi ha insegnato a domandarmi: ma questo particolare, che magari è anche d'effetto, è essenziale per raccontare la storia? Se la risposta è no, lo tolgo. Alla fine sta tutto nella scrittura, che è il mio mestiere: scrivere ad esempio un attacco che nel primo minuto del podcast attiri gli ascoltatori. Come le prime dieci righe di un articolo".
Sei diventato senza volere un personaggio. Di te però hai parlato pochissimo: com'è Stefano Nazzi privato?
"Mi piace tenere un profilo basso. Sono la voce che racconta una storia, e mi interessa raccontarla bene. Però eccomi: sono nato a Roma, ma presto sono arrivato a Milano. Non ero un bambino allegrissimo, giocavo per conto mio, non sono mai stato estroverso. Mio padre è morto quando avevo solo 16 anni, è un ricordo triste. Mia madre si è ritrovata all'improvviso, molto giovane, a dover crescere due figli, me e mio fratello. È stata molto brava".
In teatro e in Tv, come nella tua trasmissione Il caso su Rai 3, appari sempre pacato. Eppure io ti ho visto anche parecchio arrabbiato...
"Capita di arrabbiarmi, ma cerco di farlo sempre meno. E poi mi passa in fretta, voglio subito fare la pace. Da ragazzo invece non mi andava bene niente, ero pure rissoso".
Per Milano giri sempre in motorino o ti sei arreso all'auto?
"A Milano in auto divento pazzo, trovare parcheggio è micidiale. Uso lo scooter o la moto, mi hanno sempre dato un senso di libertà".
Con quale piatto ti prendono per la gola?
"Amo la cucina cinese. Ho sempre abitato in zona Chinatown e da tanti anni frequento i ristoranti cinesi. Ci sono due cibi ai quali però proprio non resisto: il sushi e il Mont-blanc. Quando lo vedo, non capisco più niente".
La sera del debutto di Indagini a teatro avevi paura?
"Terrorizzato! La prima era al teatro Arcimboldi, dove ormai sono di casa. Ci andai in scooter, da solo. Mi fecero entrare in un camerino bellissimo. Avevo il cuore in gola. Il direttore artistico del teatro, Gianmario Longoni, mi ha accompagnato a vedere il palcoscenico. Poi è arrivato il direttore di palco, che ha detto: Cinque minuti e ci siamo. C'erano 2.400 persone. Ma siete proprio sicuri?, ho chiesto. E ho fatto due gesti, che da allora ripeto a ogni spettacolo: mi sono stretto forte i lacci delle scarpe e ho lavato le mani. E sono entrato in scena".