Oggi i riflettori del mondo tennistico volgono inevitabilmente tutti verso il numero uno e il numero due: Alcaraz e Sinner. Lontani anni luce da chi li segue, affaticato e incapace di colmare una distanza che, slam dopo slam, si fa sempre più disumana. Il dominio dell'iberico e dell'italico campione ricorda da vicino quello, illuminato, di Federer e Nadal - rotto qua e là soltanto dalla maestosa ostinazione di Djokovic e, prima ancora, quello dei Sampras e degli Agassi, dei Borg e dei Lendl. Una cartina di tornasole che piazza i gomiti in ogni epoca.
Girando ulteriormente all'indietro le lancette, è possibile proseguire questo esercizio fino alle origini della contesa. Negli anni Sessanta, ad esempio, il tennis era un continente in trasformazione: i professionisti cominciavano a bussare con forza alle porte di un mondo ancora legato a tradizioni aristocratiche, le racchette di legno vibravano come strumenti a corda e le cronache sportive oscillavano tra il salotto buono e l’arena popolare. In quel decennio, prima che l’era Open spalancasse davvero le finestre, due uomini si sfidarono con una costanza quasi epica: Rod Laver e Ken Rosewall. Australiani entrambi, connazionali dunque, ma divisi da tutto ciò che conta in campo e fuori. La loro rivalità – elegante, feroce, mai urlata – resta una delle grandi parabole del tennis.
Laver, mancino dal braccio come una frusta, era l’incarnazione del giocatore totale: servizio potente, dritto che tracciava linee di gesso, una propensione al rischio che faceva tremare i giudici di sedia. Un fisico compatto, quasi tozzo, eppure capace di scatti felini e di improvvisi colpi d’arte. Rosewall, di tre anni più anziano, portava invece la cifra della pazienza e del cesello: rovescio a una mano scolpito con precisione da orologiaio, movimenti parchi, la calma glaciale di chi sa attendere l’errore dell’altro. Se Laver era l’attacco, Rosewall era la difesa attiva; se uno era l’assalto alla cittadella, l’altro era la cittadella stessa.
Le loro battaglie cominciarono nei circuiti professionistici quando ancora il tennis “amatoriale” dominava i riflettori dei grandi Slam. Mentre gli altri raccoglievano applausi a Wimbledon, loro giravano il mondo in tournée logoranti, spesso ignorati dai giornali ma seguiti da intenditori rapiti. Tra il 1963 e il 1967 si affrontarono decine di volte, con un equilibrio quasi perfetto che racconta più di qualsiasi statistica: Laver travolgente nei giorni di grazia, Rosewall capace di ribaltare inerzie con un palleggio ipnotico. Ciascuno sapeva che per battere l’altro serviva qualcosa di più della pura tecnica: occorreva intelligenza, strategia, un pizzico di crudeltà sportiva.
Quando finalmente nel 1968 il tennis si fece “open” e i due poterono rientrare nei tornei dello Slam, la saga assunse il respiro epico che meritava. La finale di Wimbledon 1969, pur vinta da Laver, resta un saggio di equilibrio drammatico: il più giovane cercava il secondo Grande Slam della carriera, l’altro si aggrappava alla sua raffinatezza senza tempo. Vinse Laver in quattro set, ma i palati fini ricordano ancora il rovescio vellutato di Rosewall come un contrappunto musicale, la bellezza di un’arte che non invecchia.
C’è, in questa rivalità, un insegnamento che va oltre il punteggio. Laver rappresentava la spinta modernista, il lampo che annuncia il futuro; Rosewall la tradizione che resiste, la prova che il tennis può essere poesia lenta. Due facce della stessa moneta australiana, unite da un rispetto profondo e da una competizione senza sbavature. Oggi, in un’epoca di accelerazioni e di colpi violentissimi, rivedere i loro scambi è come ascoltare un vinile d’annata: il suono è meno roboante, ma ogni nota risuona più nitida.
Così la storia li consegna a noi: Laver il conquistatore, Rosewall il custode. Non c’è bisogno di scegliere, perché la loro sfida fu – ed è ancora – il dialogo tra due idee di tennis che si guardano negli occhi e si riconoscono. Una rivalità grande, asciutta, sapiente. Come dovrebbe essere ogni duello che diventa leggenda.
Rod Laver chiuse la carriera con 11 titoli del Grande Slam e oltre 200 tornei vinti tra circuito amatoriale e professionistico, unico a firmare due volte il Grande Slam in un anno solare.
Ken Rosewall mise in bacheca 8 Slam e più di 130 tornei complessivi, restando competitivo ben oltre i quarant’anni.
Numeri che, al pari dei loro scambi, restano scolpiti nella memoria di chi ama il tennis.